lunedì 25 ottobre 2010

In memoria di me


Andrea è un novizio che sceglie d'intraprendere la vita da prete. In questa scelta egli spera di trovare delle certezze, ma all'interno del rigido ritiro claustrale troverà dei dubbi e delle domande. Tuttavia, dopo un tentativo di abbandono di quella vita, Andrea abbraccia totalmente la sua vocazione.  Il film è girato lasciando ampi istanti di silenzio e inquadrature rigide. I primi piani e la fotografia vogliono riprodurre l'atmosfera claustrofobica e mistica nel convento nell'Isola di San Giogio Maggiore.

Sissi a Venezia


Sissi visitò per la prima volta nel 1856 nel viaggio ufficiale in Italia insieme all'imperatore. La giovane donna si trovò a disagio data la fredda accoglienza dei cittadini.  Sissi durante la permanenza potè ammirare Piazza San Marco e assistere a numerose rappresentazioni al Teatro La Fenice, al Teatro Apollo, al Teatro Comploy a San Samuele. Inoltre visitò le carceri, i collegi e l'Accademia di Belle Arti.
Durante i suoi soggiorni risiedeva nell'ala napoleonica del Palazzo Reale. Vi tornò nel 1857 e nel secondo soggiorno del 1861 dovette affrontare la sua malattia e il terribile dolore alla caviglie. Fu durante questo soggiorno che cominciò a collezionare fotografie di belle donne. Vi ritornò nel 1895 e rese nota la sua visita solo per non offendere Re Vittorio Emanuele.

giovedì 21 ottobre 2010

Rupert Everett a Venezia

mercoledì 20 ottobre 2010

Yuppi Du di e con Adriano Celentano

Paolo Rumiz, Sul mare della storia



Isola di San Giorgio, il posto più bello del mondo la notte prima di salpare: neanche un turista e davanti Venezia che luccica dalla Giudecca all'Arsenale, la meta è Lepanto, che come ogni luogo del mito nessuno sa bene dove sia La barca un dodici metri, la mappa un foglio enorme piegato a fisarmonica, l'acqua è piatta, ma piove e i lampi squarciano il cielo, mai andato a vela per più di mezza giornata, alla vigilia della partenza qui è facile perdersi, alla fine arriva il libeccio e le sartie iniziano a cantare.

VENEZIA - "AH, Lepanto. La battaglia navale~ Ma dove sta esattamente?", ci chiedono dalla barca accanto. Scende la notte, l'aria è immobile, il cielo brontola attorno a San Marco. La nostra "Tretartarughe" - un 12 metri costruito in Finlandia - è attraccata all'isola di San Giorgio, molo della Compagnia della Vela. Il più bel posto del mondo. Non c' è un turista, ma davanti hai Venezia che luccica dalla Giudecca all'Arsenale. Sì, andiamo a Lepanto. E Lepanto, come ogni luogo del mito, nessuno sa bene dove sia.
Bisogna ripeterlo ogni volta. Sta nel golfo di Corinto, Grecia. Lepanto, 7 ottobre 1571, l'Alleanza cristiana che batte la flotta turca con l'aiuto decisivo delle galere veneziane. Lepanto, la Trafalgar del Mar d' Oriente; 30mila morti, nubi di frecce che oscurano il sole, il mare rosso di sangue. Lepanto, la voglia di tornarci dopo la guerra in Iraq. Per capire com' erano, allora, gli scontri di civiltà. Comincia a piovere, il mare è in bonaccia piatta, sull'isola si scatena una terrificante lite di gatti, i lampi illuminano punta della Dogana.
Scendo sottocoperta, apro la mia carta. Ci navigo con la mente, cerco di immaginare le isole calve battute dal vento, le 900 miglia di mare nero che ci aspettano nella notte mediterranea. Non è una carta qualsiasi. è un foglio lungo 5 metri, piegato a fisarmonica, disegnato a mano, fitto di annotazioni. è la mappa della nostra rotta sulla costa orientale dell'Adriatico e dello Jonio: un arcipelago d' appunti e isole, il riassunto di chili di libri. Uno strumento indispensabile, visto che non si possono rimorchiare biblioteche e leggere in barca dà il voltastomaco. Una follia, forse. Come la carta degli oceani con cui Achab s' ostinò a cercare Moby Dyck.
Chiamiamola Carta, con la C maiuscola. A furia d' aggiunte, cancellature e correzioni, vive ormai una vita parallela, è già usurata prima di partire. Normale: qui si viaggia su un mare di storia oltre che di acqua salata. Non ci trovi solo la strada delle galere da guerra, ma tante altre cose. La costellazione dei fari che ti guida in Terrasanta. Le basi dei pirati uscocchi e narentani, le incursioni di turchi e saraceni. La via dell'ambra e quella del sale, storie di mostri di mare e amori galeotti, bonacce e burrasche, santuari e cimiteri marini.
I leoni di San Marco scolpiti nelle terre dei fedelissimi Schiavoni e sulle isole greche fino a Cipro. Le ville del maresciallo Tito e le basi dei sommergibili tedeschi, i porti della Marina da guerra asburgica, le rotte delle portaerei Usa durante la guerra jugoslava. Tuona, la pioggia tamburella in coperta, la Carta svela meraviglie. La corsa verso l'Istria degli Argonauti in fuga dalla Colchide (Mar Nero) col vello d' oro, i viaggi perigliosi d' abati, cartografi e scrittori, la navigazione di Ulisse e dell'apostolo Paolo, l'itinerario della quarta crociata che devastò Zara e Costantinopoli. Curzola, dove i genovesi presero Marco Polo prima della dettatura del "Milione" a Rustichello da Pisa. Metoni, la fortezza-prigione dove Cervantes scrisse "Don Chisciotte" dopo aver perso l'uso della mano sinistra a Lepanto.
La grotta marina del pirata Ali Hagcà nascosta tra i picchi paurosi di Kara Buruni, Albania. Persino la fuga da Pescara di Vittorio Emanuele III dopo l'8 settembre '43. Ma anche la navigazione della bella Margherita; colei che, per sposare il re codardo, lasciò il natìo, selvaggio Montenegro. Fabrizio, lo skipper - ma chiamiamolo rispettosamente "Comandante" - è uno che non si dà pace, controlla le vele, brontola che il motore ausiliario gira male. è coautore della Carta, e vi aggiunge continuamente annotazioni: approdi favorevoli, locande sul mare, secche e scogli infidi, ripari in caso di burrasca. Teresa, la sua compagna, rassetta la cambusa.
Nelle barche intorno si cena, arriva profumo di rosmarino e melanzane. Io sbatto la fronte sulle paratìe, non ho ancora preso le misure della barca. Non ho mai fatto vela per più di mezza giornata, soffro mal di mare e sono disperatamente di terra. Ma la voglia è troppo forte. Ci sarà pure un motivo per cui si dice "imbarcarsi" in un'avventura. Per Melville l'imbarco è l'irresistibile paradigma delle partenze. La fuga nel "mar grando", il vento oceanico, l'unico stacco possibile dalle penombre dell'anima. "Andare al largo": che magnifica frase. Ripassiamo sulla mappa l'avanzata dei Turchi nel Mediterraneo, negli anni precedenti allo scontro.
I puntini gialli sono le loro basi, quelli rossi le fortezze veneziane. Fra Corfù e Rodi si mescolano in modo quasi inestricabile, dicono che la collisione d' interessi è tremenda. è la carta di uno scontro inevitabile: una storia perfetta, non manca nemmeno chi fa la parte del cattivo. è Selim II, descritto dai diplomatici veneziani come "più simile a un mostro che a un uomo", ubriacone, rozzo, ingordo e incapace. L'opposto del padre Solimano il Magnifico, il raffinato sultano che muore conquistando l'Ungheria, nel 1566. Selim vuole prendere Cipro, saldamente fortificata dai dogi, base fondamentale dei commerci con l'Oriente, e lancia ultimatum. Invade le Cicladi, punta addirittura a imbottigliare Venezia, impedirle l'uscita dall'Adriatico. Nessuno osa affrontare gli Ottomani, tranne i Cavalieri di Malta, che nel '65 hanno resistito a un micidiale assedio, respingendoli in mare. è solo dopo quell'evento che il Papa s' infiamma, capisce che l'armata "turchesca" si può battere, e spinge mezza Europa ad armarsi.
Nel frattempo Selim II dà ordine di attacco a Cipro, e la conquista alla vigilia della battaglia. "Papà, ma un turco pol copar un altro turco?", chiede un bambino su un'altra barca, dove si ciacola della nostra partenza. Domanda legittima: nella testa dei veneziani il turco ammazza solo cristiani. Anzi, li scuoia, come Marcantonio Bragadin a Famagosta nell'anno di Lepanto. Lepanto scatenò l'immaginario dell'Occidente. Mosse processioni di prelati, mobilitò santi e abati, sollevò nuvole di incenso e te deum di ringraziamento.
Fu evocata per secoli attorno ai focolari e negli ex voto: lanterne di galere, cannoni, bandiere, polene, stendardi deposti nella penombra delle cattedrali. Le furono dedicate tele a olio, colonne votive, porte di mare e di terraferma, persino montagne. Il "Gross Venediger", pilastro delle Alpi austriache, era il Gran Veneziano, l'ammiraglio Venier. Duro staccarsi da qui.
Alla vigilia della partenza capita di perdersi in labirinti di isole e fondamenta, chiese e biblioteche. Cripte di capitani di mare esplorate con l'entusiasta priore di San Zanipolo; un polveroso retrobottega dietro palazzo Pisani alla ricerca d' un bandierone di San Marco per la barca. Una chiacchierata al bar con Massimo Cacciari; il giardinetto della fondazione Querini-Stampalia dove una bella greca ti spiega le guerre tra Venezia e Turchia; il periplo dell'Arsenale con un ex ufficiale di marina innamorato delle galere.
Un calice di malvasia col novantenne, indomito Giulio Donatelli, il più vecchio velista veneziano, su una gran terrazza con vista, in un lussuoso pomeriggio di maestrale. E i corridoi del museo Correr, a caccia d' un codice secentesco di "Cose turchesche", racconto d' atroci impalamenti e delizie dell'harem. Mamma li turchi? Forse. Ma allora perché Venezia è piena di cose turche? In un pomeriggio trovo un fondaco dei Turchi in Canal Grande; un Campo dei Mori, piazzetta decorata con tre marmorei signorotti col turbante; poco in là, un bassorilievo con un cammelliere e la sua bestia. L'osteria "Rioba", dal nome d' un mercante moresco; le fondamenta degli Ormesini, dove cioè si lavoravano i tessuti di Ormuz. Tutto porta a Istanbul, come fosse l'altra riva. Il campanile di San Marco, con la campana che sembra chiamare il muezzin nel momento stesso in cui lo sfida. La concitazione all'uscita dei vaporetti, uguale a quella del Corno d' oro.
I colori pastello, il vociare dei pescivendoli, l'arcipelago delle comunità mercantili: ebrei, serbi, greci, mori. Per un attimo il Bosforo par la foce di un fiume che parte dal Canal Grande e porta al Mar Nero, fino a Trebisonda. Dicono che nel '300 un Doge pensasse seriamente di trasferire a Bisanzio, allora non ancora presa dai Turchi, il baricentro dello "Stato da Mar". Strano, stranissimo scontro di civiltà. Alle 22 le previsioni meteo dicono che arriva vento di Sudovest, Libeccio, il mitico vento africano che prende il nome dalla Libia. Inutile dormire, bighelloniamo sulla Giudecca, ci spariamo un ultimo bicchiere al bar della Palanca. Fuori il temporale ha fatto sparire i turisti, Venezia è di nuovo Venezia. Alle due, le sartie cominciano a cantare. La pioggia smette di cadere, i gatti di litigare, cominciano le urla dei gabbiani. Che buon vento ci porti. (1. continua)


Salpare : partire, andarsene dal luogo dell’ancoraggio
Meta : destinazione
Squarciare : aprire con violenza
Libeccio : vento da sud-ovest spesso molto violento
Sartia : cavo di sostegno degli alberi delle grosse imbarcazioni
Brontolare : espressione figurata, rumoreggiare di tuono o di tempesta
Attraccare : avvicinarsi a una banchina o ad un’altra imbarcazione
Bonaccia : stato del mare in calma e privo di vento
Sottocoperta : nella parte della nave situata sotto il ponte di coperta
Usurato : consumato
Uscocco : guerrigliero di origine slava
Narentano : popolo di origine slava
Incursione : entrata violenta e rapida in un luogo
Burrasca : tempesta marina con forte vento
Tamburellare : battere continuamente con colpi leggeri su una superficie
Periglioso : pericoloso
Codardo : vigliacco, che si ritira di fronte a rischi e doveri
Natio : nato in un determinato luogo
Infido : che non è sicuro
Rassettare : mettere in ordine
Cambusa : nelle navi, il deposito dei viveri
Paratie : elemento verticale che serve a dividere in vari ambienti lo scafo
Imbarcarsi : espressione figurata, intraprendere un’attività rischiosa e difficile
Paradigma : modello, esempio
Mescolare : mettere insieme
Inestricabile : impossibile da districare, sbrogliare
Collisione : contrasto, urto
Ingordo : insaziabile, goloso
Imbottigliare : privare di ogni possibilità di movimento
Ciacolare : chiacchierare
Scuoiare : togliere la pelle
Prelato : ecclesiastico cattolico con titolo soltanto onorifico
Mobilitare : mettere in movimento
Abate : superiore di un monastero
Evocare : richiamare
Polena : immagine raffigurante una figura umana o un animale, scolpita per ornamento sulla prua di una nave
Votivo : offerto in voto
Cripta : sotterraneo di una chiesa, adibito alla sepoltura
Priore : superiore di monastero in alcuni ordini religiosi
Periplo : descrizione di un viaggio marittimo
Malvasia : vino dolce o secco
Indomito : che non è stato domato, selvaggio
Maestrale : vento da nord-ovest freddo e secco
Impalare : uccidere qualcuno infilzandolo in un palo
Fondaco : edificio adibito a magazzino per i mercanti in paesi stranieri
Cammelliere : conduttore di cammelli
Muezzin : nelle moschee islamiche, la persona che, con canto rituale, invita i fedeli alla preghiera
Concitazione : stimolo, spinta, esortazione
Bighellonare : perdere il tempo oziando
Sparare : espressione figurata, gustarsi, farsi

Paolo Rumiz, È Oriente

Paolo Rumiz, È Oriente, Feltinelli, 2005, pp.198


Trieste-Vienna in bici

Pioviggina sul colle del Sonnenberg, ci alziamo sul sellino per l’ultima salita, finché in cima l’orizzonte si slarga e a nord – oltre i fiumi, i villaggi e le ultime pendici del Wienerwald – compare solitaria, evanescente come una fatamorgana, la guglia di Santo Stefano. È il Danubio, la meta, la gioia, il tuffo al cuore, le domande che frullano in testa. Vienna l’abbiamo già vista: da dove viene questa emozione nuova? Siamo già stati in mezzo mondo: e allora perché ci sembra di non aver mai viaggiato prima?

Non può dipendere che da questa macchina silenziosa che da sei giorni mio figlio e io abbiamo sotto il sedere. È la prima volta che la usiamo per viaggiare. È stata un bracco implacabile: ha fiutato il terreno in ogni anfratto e ora ce lo riconsegna nitido, ce lo srotola come un film. Trieste, Lubiana, la Drava, il Burgenland, il passaggio in Ungheria. Smette di piovigginare, siamo euforici, planiamo a tutta birra sul Danubio. Achau, Leopoldsdorf, Laxenburgerstrasse; la ragnatela della città imperiale ci cattura. Ma il risucchio è iniziato seicento chilometri prima, alla partenza, davanti alla porta di casa.

In questo viaggio le due bici sono state per noi tante cose. Tandem generazionale, strumento di conoscenza, riconquista della lentezza, passaporto per una clandestinità nuova, perfino macchina sovversiva. Hanno ribaltato la percezione della distanza, della durata e dell’andatura, la capacità di guardare e gustare, la dimensione acustica, olfattiva e persino onirica del viaggio. Sono state macchina da presa, rosario di orazioni, miscelatore di immagini e memorie, fabbrica di pensieri e di sogni straordinari.

A ben guardare, le due ruote leggere sono state anche strumento di penitenza, riscoperta della fatica e del silenzio. Si sono rivelate infine un attrezzo rivoluzionario, perché annullano le gerarchie, semplificano i bisogni, rivendicano un accesso più umano al territorio. Giunti in Austria – un luogo dove chi va in bici è un benemerito, non un miserabile intralcio all’industria dell’auto – abbiamo pensato spesso all’Italia, a questo paese d’Europa capace di esprimere Coppi e Bartali, nonché folle di cicloamatori tra i quali persino il capo del governo, ma che resta nevrotico e impercorribile, estraneo alle sue stesse strade millenarie.

I tedeschi la chiamano Reisefieber, febbre da viaggio. La riconosco subito: arriva a notte fonda, con vampate di calore, ansia e acciacchi vari. Fa caldo, mi rigiro nel letto e penso che sono matto. Parto senza allenamento, non so nemmeno cosa sia un rapporto 17 x 42. Perché lo faccio? Papà, aveva detto un giorno Michele, facciamo qualcosa insieme. E papà aveva detto sì, perché a cinquant’anni tutti vogliono fare qualcosa di speciale: riprendersi il proprio tempo e il proprio spazio, magari farsi un tagliandino di efficienza. Oggi ho la bici, mi tocca pedalare; ma so che già domani mattina non ce la farò ad alzarmi dal letto. Ho studiato le carte al centimetro, eppure di notte quei seicento chilometri paiono una muraglia invalicabile e infinita. L’aria è ferma. Mi alzo a controllare le sacche. Spazzolino, borraccia, quadernino, cerotti, carte geografiche, magliette, documenti, soldi. Mio figlio dorme beato. È sicuro che ce la farò: dunque è matto anche lui.

C’era la luna, la notte della vigilia. Una notte inquieta di cani e pipistrelli. Ho attraversato la città in scooter, l’aria era immobile e umida, lasciava sospesa una rugiada argentata. Succedeva una cosa rarissima: i profumi del mare e quelli della montagna non entravano in conflitto, ma si armonizzavano senza sovrapporsi. Così ho attraversato profumo di fieno e mare aperto, di cipressi e bagnasciuga, di pini marittimi e secca brughiera, il respiro delle acacie e l’odore della pescheria chiusa, e poi il droghiere, il macellaio, il panettiere. Era come se bucassi quel pulviscolo scavandovi un tunnel che aveva la forma del mio corpo.

Accanto al comodino tengo sempre pile di atlanti, carte, guide, romanzi di viaggio, diari di bordo, relazioni con fotografie di paesi lontani, storie di antichi pellegrinaggi. In cima, il libro dei libri, Moby Dick di Herman Melville. Talvolta sono così tanti che formano un muretto; al mattino devo scavalcarlo per alzarmi. Ai piedi del letto una piccola valigia, con l’indispensabile per le partenze improvvise, frequenti nel mio mestiere. Ecco, ogni mio viaggio comincia già lì. Prima con i sogni più trasgressivi, spesso sul far dell’alba. Poi con quel metro e mezzo di percorso impervio ingombro di libri accatastati. Passate quelle Forche Caudine, tutto diventa facile. Esci di casa ed è fatta.

Filiamo all’alba come contrabbandieri. Odore di bosco: è pulita a quell’ora l’aria di città. Ultimo dubbio, prendere o non prendere il telefonino. Poi tagliamo corto: siamo uomini o commercialisti? Così lasciamo il grillo infernale, molliamo gli ormeggi, e già al primo colpo di pedali si insinua in noi una leggerezza nuova. Siamo liberi, irreperibili. Chi ha detto che partire è un po’ morire? Qui la partenza è un’evasione, la strada una via di fuga. E noi siamo degli imboscati, dei banditi allegri. L’ansia evapora, la fretta pure. I motorizzati diventano marziani, l’auto un dinosauro, sgommare una demenza. Ce la faremo, bastano pochi metri per capirlo. La condizione non c’è? Chi se ne frega; verrà.

  • slarga: allarga
  • pendici: i lati di un monte o di una collina
  • evanescente: che tende a svanire, a sfumare
  • fatamorgana: tipo di miraggio di illusione ottica
  • bracco: una specie di cane da caccia
  • fiutato: participio di fiutare annusare
  • anfratto: luogo stretto e difficile da percorrere
  • risucchio: forza che attira veso il fondo
  • olfattiva: dell'olfatto, che ci fa distunguere gli odori
  • penitenza: sacrificio
  • intralcio: ostacolo
  • Coppi e Bartali: due campioni del ciclismo italiano degli anni '50
  • acciacchi: disturbi fisici abituali
  • tagliandino: controllo periodo dell'efficienza
  • pulviscolo: polvere sottile sospesa nel'atmosfera
  • Forche Caudine: la fase significa: provae una grande umiliazione


Paolo Rumiz, È Oriente, Feltinelli, 2005, pp.198


mercoledì 6 ottobre 2010

Tiziano Scarpa, Venezia è un pesce




Tiziano Scarpa, Venezia è un pesce, Feltrinelli , 2003, 128 p.

Venezia è un pesce. Guardala su una carta geografica. Assomiglia a una sogliola colossale distesa sul fondo. Come mai questo animale prodigioso ha risalito l'Adriatico ed è venuto a rintanarsi proprio qui? Poteva scorrazzare ancora, fare scalo un po' dappertutto, secondo l'estro; migrare, viaggiare, spassarsela come le è sempre piaciuto: questo fine settimana in Dalmazia, dopodomani a Istanbul, l'estate prossima a Cipro. Se si è ancorata da queste parti, un motivo ci deve essere. I salmoni si sfiancano controcorrente, si arrampicano sulle cascate per andare a fare l'amore in montagna. Balene, sirene e polene vanno a morire nel mar dei Sargassi.

Gli altri libri sorriderebbero di quello che ti sto dicendo. Ti raccontano la nascita dal nulla della città, la sua
strepitosa fortuna commerciale e militare, la decadenza: fiabe. Non è così, credimi. Venezia è sempre esistita come la vedi, o quasi. È dalla notte dei tempi che naviga; ha toccato tutti i porti, ha strusciato addosso a tutte le rive, le banchine, gli approdi: sulle squame le sono rimaste attaccate madreperle mediorientali, sabbia fenicia trasparente, molluschi greci, alghe bizantine. Un giorno però ha sentito tutto il gravame di queste scaglie, questi granelli e schegge accumulati sulla pelle un poco per volta; si è resa conto delle incrostazioni che si stava portando addosso. Le sue pinne sono diventate troppo pesanti per sgusciare fra le correnti. Ha deciso di risalire una volta per tutte in una delle insenature più a nord del Mediterraneo, la più tranquilla, la più riparata, e di riposare qui.

Sulla cartina geografica, il ponte che la collega alla terraferma assomiglia a una
lenza: sembra che Venezia abbia abboccato all'amo. È legata a doppio filo: binario d'acciaio e fettuccia d'asfalto; ma questo è successo dopo, soltanto un centinaio di anni fa. Abbiamo avuto paura che un giorno Venezia potesse cambiare idea e ripartire; l'abbiamo allacciata alla laguna perché non le saltasse in mente di salpare di nuovo e andarsene lontano, questa volta per sempre. Agli altri diciamo che l'abbiamo fatto per proteggerla, perché dopo tutti questi anni di ormeggio non è più abituata a nuotare: la catturerebbero subito, finirebbe di sicuro su qualche baleniera giapponese; la esporrebbero in un acquario a Disneyland. La verità è che non possiamo più fare a meno di lei. Siamo gelosi. Anche sadici e violenti, se si tratta di trattenere chi si ama. Abbiamo fatto di peggio che legarla alla terraferma: l'abbiamo letteralmente inchiodata al fondale.

C'è un romanzo di Bohumil Hrabal dove un bambino ha l'ossessione dei chiodi. Li pianta solo sui pavimenti: a casa, in albergo, dagli ospiti. Tutti i parquet di legno che gli capitano a tiro vengono martellati dalla mattina alla sera. Come se il bambino volesse fissare le case al terreno, per sentirsi più sicuro. Venezia è fatta così; solo che i chiodi non sono di ferro ma di legno, e sono enormi, da due a dieci metri di lunghezza, con un diametro di venti, trenta centimetri. Sono piantati nella
melma del fondale.

Questi palazzi che vedi, le architetture di marmo, le case di mattoni non si potevano costruire sull'acqua, sarebbero sprofondate nel fango. Come si fa a gettare fondamenta solide sulla melma? I veneziani hanno conficcato nella laguna centinaia di migliaia, milioni di pali. Sotto la basilica della Salute ce ne sono almeno centomila; anche ai piedi del ponte di Rialto, per contenere la spinta dell'arco di pietra. La basilica di san Marco poggia su zatteroni di rovere, sostenuti da una palafitta d'
olmo. I tronchi se li sono procurati nei boschi del Cadore, sulle Alpi venete; li hanno fatti scendere fino alla laguna lasciandoli galleggiare lungo i fiumi, sul Piave. Ci sono larici, olmi, ontani, querce, pini, roveri. La Serenissima è stata molto accorta, ha avuto sempre un occhio di riguardo per questo patrimonio di legno; leggi molto severe salvaguardavano le foreste.

Alberi capofitti a testa in giù, piantati con una specie di
incudine tirata su a forza di carrucole. Ho fatto in tempo a vederli, da bambino: ho sentito le canzoni degli operai battipalo ritmate dalle percussioni lente e poderose di quei magli sospesi per aria, a forma di cilindro, che scorrevano su rotaie verticali, in piedi, salivano piano, si abbattevano di schianto. I tronchi si sono mineralizzati proprio grazie al fango, che li ha avvolti nella sua guaina protettiva, ha impedito che marcissero a contatto con l'ossigeno: in apnea per secoli, il legno si è trasformato quasi in pietra.

Stai camminando sopra una sterminata foresta capovolta, stai passeggiando sopra un incredibile bosco alla rovescia. Sembra l'invenzione di un mediocre scrittore di fantascienza, invece è vero. Ti descrivo che cosa succede al tuo corpo a Venezia, a cominciare dai piedi.

  • scorrazzare : correre a piacere in più direzioni
  • estro : ispirazione
  • spassarsela : divertirsi
  • polene: figure di legno che un tempo si ponevano a ornamento della prua delle navi
  • strepitosa : straordinaria, clamorosa
  • squame : ciascua delle lamelle che ricoprno il corpo dei pesci
  • gravame : peso
  • insenature : parte di mare che rientra verso terra formando un golfo
  • lenza : filo di nailon lungo e sottile con attaccato all'estremità un amo
  • abboccato all'amo: prendere con la bocca
  • allacciata : legata
  • melma : sabbia sul fondo del mare
  • olmo : albero di grandi dimensioni
  • incudine : blocco di ferro
  • schianto : rottura improvvisa, cedimento
  • apnea : il trattenere il respiro