giovedì 18 novembre 2010

Paolo Rumiz, La rotta per Lepanto

Paolo Rumiz, La rotta per Lepanto (3)



E ora, con l'aurora che spunta, immaginiamo le galere che vanno; la partenza della flotta di Sebastiano Venier contro i Turchi in quel fine estate del 1571. Nella realtà le navi non salparono tutte insieme, radunare la flotta fu operazione lunga, diluita da Venezia fino a Corfù. Ma proviamo a immaginare il passaggio di una grande flotta a remi davanti a San Marco. Non è facile "vedere" un simile spettacolo avendo in mente le navi di oggi. Cento galere, cento navi affusolate, lunghe dai quaranta ai cinquanta metri, quindicimila rematori. Impossibile. Non c' è libro specialistico, non c' è manuale di storia che sveli l'anima di un evento così grandioso.

Solo chi naviga davvero, chi conosce i segreti dei legni, può capire. Un disegnatore di barche a vela. Come il vecchio Carlo Sciarrelli, triestino, lupo di bordo, grande raccontatore e grande divoratore di biblioteche di mare. Lo risento, una sera nel suo giardino, davanti a un tavolo pieno di carte antiche, mimare a gran gesti la vogata dei rematori e narrare, in dialetto, quello straordinario preludio della battaglia. "Pensa al rumor de cinquemila remi che entra in acqua, pensa ale schene, al respiro de quindesemila gaeotti che voga in pie. Trentamila brazzi, trentamila polmoni.

Iera quasi tuti s' ciavoni, i più forti e i più grandi de tuti. E po' le vele che se alza, i musicanti a puppa cole trombe, i tamburi, i nobili cole armadure, i soldai cole piume, le bandiere al vento, e tuta Venezia che varda. Ti viene la pelle d' oca. L'umanità non ha mai prodotto un'immagine più straordinaria della grandiosità". Per fare Lepanto devi moltiplicare per quattro questa già inimmaginabile grandiosità. Pensare a ventimila remi, una foresta vergine di legni che spazzano le schiume.

Veneziani con genovesi, papalini, maltesi, napoletani. Navi perfette, il top del remo in simbiosi con la vela, una storia di duemila anni che parte dalla trireme greca e dalla "Navis Longa" di Roma. "Lepanto, apoteosi e fine di una leggenda che comincia a Salamina".

Aurora: sostantivo femminile singolare; il chiarore che precede a oriente, dopo l'alba, il sorgere del Sole. Sinonimo: crepuscolo
Galere: sostantivo femminile plurale; grande barca veneziana
Flotta: sostantivo femminile singolare; insieme delle navi militari o mercantili di uno Stato o di una compagnia di navigazione
Salparono: passato remoto alla 3^ persona plurale del verbo “salpare; levare le ancore, sciogliere gli ormeggi, partire, prendere il largo
Diluita: participio passato (femminile singolare) del verbo “diluire; rendere meno densa. Sinonimo: sparpagliata
Remi: sostantivo maschile plurale; lunga pala di legno che, immersa nell’acqua, permette di far muovere la barca
Avendo in mente: gerundio del verbo “avere; Sinonimi: ricordare, pensare
Affusolate: participio passato (femminile plurale) del verbo “affusolare; dare la forma di un fuso. Sinonimo: assottigliare
Rematori: sostantivo maschile plurale; chi rema
Manuale: sostantivo maschile singolare; libro contenente le nozioni fondamentali di un’arte o di una disciplina
Sveli: congiuntivo presente alla 3^ persona singolare del verbo “svelare”; render noto ciò che era nascosto. Sinonimi: manifestare, rivelare
Naviga: presente indicativo alla 3^ persona singolare del verbo “navigare; viaggiare con nave
Legni: sostantivo maschile plurale; la parte dura del tronco e dei rami delle piante, il materiale da costruzione che si ricava dal tronco di certi alberi
Vela: sostantivo femminile singolare; telo che viene fissato all’albero di un’imbarcazione che viene manovrata in modo da sfruttare il vento 
Lupo di bordo: marinaio esperto
Divoratore: chi divora
Mimare: esprimere con gesti
Vogata: sostantivo femminile singolare; atto, effetto del vogare, la spinta data col remo
Preludio: sostantivo maschile singolare; introduzione, nei brani musicali, ad una composizione, segno premonitore
Schene: sostantivo femminile plurale; termine dialettale che significa “schiene”: parte posteriore del torso umano
Gaeotti: sostantivo maschile plurale; termine dialettale che significa “galeotti”: carcerati, coloro che remavano nelle galee, per lo più schiavi o condannati
Pie: sostantivo maschile plurale; termine dialettale che significa “piedi”: la parte terminale delle gambe che serve per mantenere l’equilibrio e la posizione dritta, per camminare e per correre
Brazzi: sostantivo femminile plurale; termine dialettale che significa “braccia”: segmento dell’arto superiore compreso tra la spalla e il gomito
S' ciavoni: sostantivo maschile plurale; abitanti della Sclavonia (Dalmazia)
Puppa: sostantivo femminile singolare; termine dialettale che significa “poppa”: la parte posteriore di un’imbarcazione
Armadure: sostantivo femminile plurale; termine dialettale che significa “armature”: complesso di armi difensive che indossavano i guerrieri antichi
Varda: presente indicativo alla 3^ persona singolare del verbo “guardare; termine dialettale che significa “guarda”
La pelle d’oca: modo di dire che significa che qualcosa ti emoziona e ti fa venire i brividi
Moltiplicare: verbo, infinito presente; far aumentare di numero, accrescere
Inimmaginabile: aggettivo; che non si può immaginare
Vergine: aggettivo; non ancora del tutto esplorata
Spazzare: verbo, infinito presente; pulire, togliere, portar via, liberare
Simbiosi: sostantivo femminile singolare; vita in comune di due esseri, animali o vegetali, contatto stretto, affinità tra fenomeni diversi
Trireme: sostantivo femminile singolare; antica nave da guerra a tre ordini di remi
Apoteosi: sostantivo femminile singolare; esaltazione, celebrazione
Leggenda: sostantivo femminile singolare; narrazione di un fatto, di argomento religioso, eroico o cavalleresco, in cui entrino molti elementi fantastici

martedì 16 novembre 2010

Paolo Rumiz, La rotta per Lepanto

IL VIAGGIO/La rotta per Lepanto (2)
Arsenale, leggenda dimenticata



Quattro del mattino, partenza. Ci lasciamo alle spalle la soglia armata di Venezia: riva degli Schiavoni, il forte di Sant' Andrea... Ma soprattutto sfiliamo davanti al canale d' uscita del grande cantiere navale dove ai tempi del Turco si armavano anche venti galere al giorno. Una lapide ricorda la 'Grande Vittoria': Lepanto è sottintesa. Solo qui avevano il permesso di fabbricare le galere. Grandiosa la partenza della flotta in quella fine estate del 1571. Puntiamo su Parenzo. L' Istria manda già odore di terra

Quattro del mattino, il vento a poppa gonfia il Leone di San Marco, è ora di andare. La barca fila motore al minimo, va nel buio con tenui luci da discoteca. Acqua torbida, gabbiani, sensazione strana di essere su un fiume. Sottocoperta bolle il caffè, fuori la città dorme e tutto già parla del Turco. La riva degli Schiavoni, mitico imbarco per l'Oriente; il canale d' uscita dell'Arsenale, dove ai tempi del Grande Nemico si armavano anche venti galere al giorno; l'ombra cinquecentesca del forte di Sant' Andrea.

E' la soglia armata di Venezia tra laguna e mare aperto. Per chi esce, è la prima delle fortezze di San Marco che portano a Levante. Per chi entra, è la prima cosa che vedi della Serenissima. Una lapide ricorda la "Grande Vittoria". Lepanto non è nominata, non si nomina quasi mai a Venezia. Nemmeno la data è scolpita, tanto è ovvio che è quello l'evento. Fu un modello, il forte di Sant' Andrea: lo copiarono anche a Pietroburgo. Ma l'originale fece una fine ingloriosa.

Sparò una volta sola, alla fine del Settecento, e quello sparo - contro un veliero napoleonico - segnò la fine della Repubblica. Oggi è coperto di erbacce, vergognosamente chiuso agli umani. Con dodici milioni di turisti l'anno, qui non hanno un baiocco per le glorie del mare.
Venezia ormai dimentica se stessa. In maggio correvano i 200 anni della nascita di Daniele Manin, l'eroe della rivolta antiaustriaca del '48. Non se n' è accorto nessuno. Neanche un garofano sulla tomba.

Una luce verde e una rossa. Le bocche di porto di San Nicolò, tra l'ombra del Lido e quella di Punta Sabbioni. Segnano l'ingresso nel Mar Grando ed è come se ti chiudessero alle spalle la porta di Venezia. Qui si tiravano le catene per blindare la città in tempi d' allarme rosso e si buttavano in acqua gli anelli dello "Sposalizio del mare". I marinai partendo invocavano la Madonna del Rosario, dedicata alla guerra col Turco dai papi della Controriforma. Esce qualche stella. Libeccio a dieci nodi, irregolare, con onda lunga. L'ora delle vele. La prua è sull'Istria, il motore dà gli ultimi colpi di tosse, sull'Adriatico scende il silenzio. A Nord l'ultimo, monotono cordone di sabbia della Padania.

Non la vedremo più, puntiamo subito sulla costa Est, verso gli arcipelaghi degli "Schiavoni". Per la gente di terra può sembrare un non-senso lasciare una costa rettilinea come un'autostrada per infilarsi in un dedalo frastagliato. Invece ha senso eccome. Sulle coste piatte non hai riparo dalle tempeste, nelle altre invece sì. Lo sapevano già i Greci, che navigavano solo sul lato Est dell'Adriatico. Al tempo dei Turchi figurarsi.

Per i veneziani le spiagge italiche erano da evitare come la peste, perché "imbrogliose per piogie et oscurità improvise et per mezelune et revelini et bombarde che fa la costa aspra et periculosa pè legni de la Serenità Vostra".


soglia: linea di confine posta all'ingresso
galera grossa nave a remi veneziana
Lepanto: La battaglia di Lepanto è uno storico scontro avvenuto il 7 ottobre 1571 tra le flotte musulmane dell'Impero ottomano e quelle cristiane della Lega Santa che riuniva le forze navali di Venezia, della Spagna, di Roma, di Genova, dei Cavalieri di Malta, del Ducato di Savoia, del Ducato d'Urbino e del Granducato di Toscana. La battaglia si concluse con una vittoria delle forze alleate, guidate da Don Giovanni d'Austria, su quelle ottomane di Mehmet Alì Pascià, che perse la vita nello scontro.
fila: va
tenui: deboli
sottocoperta: la parte coperta di una barca
armare: attrezzare una nave
lapide: lastra di pietra dove è incisa un'iscrizione
veliero: barca a vela
baiocco: una moneta
garofano: un fiore
invocare: chiedere pregando
libeccio: vento umido meditteraneo
frastagliato:che ha i contorni irregolari

lunedì 15 novembre 2010

L'amante senza fissa dimora di Fruttero & Lucentini


(Dal secondo capitolo, Il portoncino di quercia, che era, paragrafo 2)

Il Palazzo Ducale in complesso è piaciuto, li ho soddisfatti, anche se meno dell'angusto passaggio con finestrini laterali - un segmento di DC-9, in pratica - a metà del quale Mr. Silvera li ha fermati all'improvviso: sapevano dov'erano?
- No, no, where are we? Où sommes-nous? Donde estamos, Mr. Silvera?
Solo la ragazza portoghese (che si chiama Tina, o così almeno la chiama suo padre) ha mormorato a voce bassissima, dopo aver scrutato oltre i vetri incrostati di polvere:
- Talvez o ponte...
Proprio così: il celebre ponte dove sospirano gli infelici portati ai Piombi, e che altro è vederlo da fuori, altro è passarci dentro come se i condannati fossimo noi. On le gôut mieux, si gusta meglio, ha riconosciuto per tutti Mme Durand.
I Pimobi stessi hanno invece un po' deluso, dopo questa introduzione, e così anche l'interno di San Marco, giudicato troppo buio. Perchè non si provvedeva a un'illuminazione decente? Ma soprattutto la Pala d'Oro, sulla tomba del Santo, ha suscitato perplessità e dissensi, non essendo veramente tutta d'oro come il biglietto d'ingresso lasciava credere. I 28 ne discutono ancora puntigliosamente, mentre seguono il loro accompagnatore verso la tappa successiva.
Bisogna considerare prima di tutto il valore artistico, osservano i difensori della Pala; e del resto, benchè la gran lastra sia d'argento, anche le sue lamine auree devono avere un bel peso, nell'insieme. Qui tuttavia i pareri si dividono e chi dice due, chi tre, chi perfino dieci chilogrammi. What do you think, Mr. Silvera?
Ma Mr. Singh e sua moglie, i due bengalesi o cingalesi che siano, continuano a sentirsi in qualche modo truffati, e il loro mugugno ostile si aggiunge a quello di altri che avevano già gradito poco il picnic, o lo stanno digerendo male adesso. Poi fa un freddo umido, con un vento che impedisce perfino a Mme Durand di gustare meglio la vista dei canali, dalle spallette dei piccoli ponti (troppi, con troppi scalini) che Mr. Silvera si ostina a traversare. Quant'è ancora distante, questo famoso campo San Giovanni e Paolo? Non si poteva prendere un vaporetto? E se venisse a piovere?
Qualche cosa non sta andando come dovrebbe e la colpa, cominciano a pensare in diversi, è anche di Mr. Silvera, che non si preoccupa più di animarli, di tenerli su, e si distrae invece a guardare per conto suo delle cose che non interesano a nessuno: finestre dalle persiane ammuffite, portoni sbreccati, scalcinati muri da dietro i quali spuntano alberelli.

angusto: stretto.
mormorato: sussurrato.
scrutato: guardato con attenzione e curiosità.
incrostato: ricoperto di una crosta.
decente: dignitosa.
dissensi: disappunti, non essere d'accordo su qualcosa.
puntigliosamente: minuziosamente, in modo molto preciso.
lastra: piano di metallo.
auree: d'oro.
bengalesi: che vengono dal Bangladesh.
cingalesi: che vengono dallo Sri Lanka.
truffati: inbrogliati.
mugugno: brontolio, borbottio.
spallette: parapetti.
persiane: serramenti esterni delle finestre.
ammuffite: ricoperte di muffa.
sbreccati: scheggiati, rovinati, sul bordo.
scalcinati: senza intonaco, rovinati.

Marco e Mattio (Seconda parte)



Marco e Mattio
(Seconda parte)

Il secondo giorno di navigazione, da Belluno a Falzè di Piave, ci fu un’altra avventura. Pochi minuti dopo che i viaggiatori erano partiti il cielo s’oscurò, i tuoni rimbombarono tra il Monte Alto e il Nevegal, l’azzurro si ridusse a una striscia sottilissima che infine scomparve per far posto a nuvoloni gonfi di pioggia: tornò il buio, in un paesaggio rischiarato soltanto dalla luce dei lampi che facevano sembrar piombo fuso le acque del Piave, e davano a tutto ciò che illuminavano un aspetto spettrale. Angelino piagnucolava: “Voglio scendere! Per favore, Mattio, di’ al capo-zata che si fermi!”. Ma bastava guardare gli zatterieri per capire che il loro massimo sforzo, in quel momento, era rivolto ad andare ancora più in fretta, mantenendo la zattera nel centro della corrente e impegnandosi tutti insieme sui remi per aggirare le secche, molto numerose in quel tratto di fiume. Soltanto quando incominciarono a venir giù certi goccioloni così grossi che battendo sulla superficie dell’acqua sembravano sassi, o chicchi di grandine, l’equipaggio si preoccupò delle persone che erano a bordo, senza però eccedere in premure e senza distogliere troppa gente dalla manovra: un uomo solo, il caporal a man de fant – che nella gerarchia della navigazione sul Piave era il comandante in seconda – abbandonò il suo posto sulla zattera di poppa per portare una tela cerata ai passeggeri, e poi anche li aiutò ad aprirla e ad allargarla, mentre la pioggia tempestava sulle loro teste e sui loro vestiti; ad assicurarla alle taje, cioè ai tronchi di larice di cui era fatta l’imbarcazione, con certi ganci di ferro che erano attaccati ai bordi del telo. Dopo molti sforzi, e quando tutti ormai erano già bagnati, la copertura fu sistemata direttamente sulle teste dei viaggiatori che si ritrovavano al buio, senza più la possibilità di vedere ciò che stava succedendo all’esterno: in balía del fiume e della tempesta. La zattera, intanto, correva veloce sul filo della corrente, spinta anche da un vento gelato, così forte che l’acqua del Piave si sollevava alle sue raffiche, e i fulmini cadevano tanto vicini che se ne sentiva, oltre al fracasso, anche l’odore: se la parola odore è sufficiente a definire quell’atmosfera elettrica e sulfurea, inconfondibile per chi l’abbia respirata anche solo una volta, che si avverte in prossimità di un fulmine. Era il primo vero temporale di quell’anno e durò più di un’ora: grandinò, piovve, ritornò a grandinare e poi ancora a piovere, mentre i passeggeri, spaventati e intirizziti, se ne stavano sotto il telone a battere i denti e a mormorare preghiere (...). Passata Feltre, il vento cambiò: in un batter d’occhi, il temporale dileguò verso sud-est, verso Vicenza e Verona. Le nuvole si sfilacciarono, si sfrangiarono; il cielo veneto, così bello e luminoso nella realtà come nella pittura di tre secoli, dal Giambellino al Guardi, tornò a risplendere del suo azzurro; il grande fiume, che un’ora prima era sembrato così cupo, scintillò al sole in una miriade di luci e di riflessi mentre dalla parte di Belluno, tra le montagne, s’alzava l’arcobaleno. Il Piave, all’epoca della nostra storia, era il fiume, quello sotterraneo delle condotte forzate “Piave Boite Maè Vajont” che alimentano le centrali elettriche in pianura: soltanto la somma di questi due fiumi, nel presente, potrebbe ridarci il Piave d’un tempo, che ogni anno trascinava a valle il legname delle foreste del Cadore e che Mattio e Angelo vedevano dalla loro zattera, in quel giorno d’aprile del 1784. Spinto da un flusso sempre più lento e possente, il convoglio arrivò in pianura e vi sostò per la notte, altre due volte: a Falzè e a Ponte di Piave. Fortunatamente per i nostri viaggiatori, però, quei pernottamenti non ebbero storia: i passeggeri della “rapida” dormirono nelle baracche a loro destinate, da null’altro infastiditi che dal frastuono di quelli tra loro che russavano, e dal lavorio silenzioso di certe bestioline, che se ne stavano acquattate nella paglia e attendevano ogni notte i nuovi arrivati... A Ponte di Piave, Mattio uscì all’alba per una necessità e trovò nella baracca un altro passeggero della zattera che si stava alzando le brache in quel momento. Con questo gesto di legittimo orgoglio, il viaggiatore indicò a Mattio quella parte di sé da cui si era appena separato e che stava lì a terra. Sentenziò, battendosi il pugno sul petto: “Pissar ciaro e cagar duro, l’uomo forte è come un muro!”. In pianura, c’erano dappertutto certi campi coltivati con tante file di piantine alte una spanna, che i nostri montanari non avevano mai visto prima d’allora e che incuriosirono il piccolo Angelo. Mattio non sapeva dirgli di che coltivazioni si trattasse e uno sconosciuto che viaggiava insieme a loro si indignò per tanta ignoranza. “Come si fa, - chiese in tono di rimprovero – a non riconoscere il Dio che ci ha creati, e i genitori che ci hanno fatto crescere, e questi campi che ci mantengono in vita?”. Alzò il dito con molta gravità. “Queste che state vedendo, - disse rivolto al piccolo Angelo, - sono i campi della polenta, ricordatene sempre! Tutti gli uomini e le donne della Terra Ferma, tolti pochi signori, mangiano da qui!”.
I campi della polenta erano così numerosi, e così grandi, che sembrava non dovessero finire mai: invece finirono. Nelle prime ore del pomeriggio, a forza di remi, la “rapida” dal Cadore entrò in laguna tra nuvole di trampolieri, stormi di anatre selvatiche e sciami d’uccelli d’ogni genere, acquatici e terrestri, che s’alzavano in volo disturbati dalle grida degli zatterieri. Uno spettacolo indimenticabile, per il piccolo Angelo: ma le meraviglie, ormai, erano così numerose, che lui si guardava attorno con la bocca e gli occhi spalancati, e non chiedeva più niente al fratello. C’erano le postazioni di pesca, con le loro reti quadrate appese agli argani; c’erano le barche colorate a colori vivaci, i barconi da carico e le tartane con le vele triangolari, palpitanti nella brezza di mare; c’era perfino - nera e sinistra in mezzo alla palude – una nave da guerra in disarmo, una fusta piena di pazzi che saltavano sul ponte e gridavano a chiunque passasse di lì, di dargli da mangiare. (“Presto, presto! – imploravano i pazzi – Buttateci qualcosa! Per l’amor di Dio, se no crepiamo di fame!”).

  • s’oscurò, pass. rem. del verbo oscurarsi: diventare scuro, buio.
  • tuoni,nome masch., pl. di tuono: rumore intenso che accompagna i lampi durante i temporali.
  • rischiarato, part. pass. del verbo rischiarare: illuminare.
  • lampi, nome masch., pl. di lampo: luce improvvisa e abbagliante tra le nubi, come di scarica elettrica.
  • piombo, nome masch. sing.: metallo pesante, di colore grigio-blu.
  • spettrale, agg., simile ad uno spettro, fantasma.
  • piagnucolava, ind. imperfetto del verbo piagnucolare: piangere a lungo ma in modo debole.
  • zatterieri, nome masch., pl. di zatteriere: colui che guida la zattera.
  • aggirare, verbo: girare intorno a qualcosa.
  • secche, nome femm., pl. di secca: tratta del fiume poco profondo.
  • grandine, nome femm., sing., pioggia che per il freddo diventa palline di ghiaccio.
  • eccedere,verbo: esagerare.
  • premure, nome femm., pl. di premura: attenzioni.
  • gerarchia, nome femm., sing.: disposizione in scala di persone in base alla loro importanza.
  • poppa, nome femm., sing.: parte posteriore della nave.
  • cerata, agg., letteralmente ricoperta di cera: impermeabile.
  • assicurarla, verbo assicurare: fissare bene qualcosa perché non si muova (in questo caso la tela).
  • copertura, nome femm., sing.: struttura usata per coprire, riparare.
  • in balia, nome femm., sing.: sotto il dominio di qualcosa o qualcuno.
  • raffiche, nome femm., pl. di raffica: soffio improvviso e violento del vento.
  • fulmini, nome masch. pl. di fulmine: luce intensa e rapidissima che compare durante un temporale.
  • fracasso, nome masch. sing.: rumore molto forte.
  • sulfurea, agg.: di zolfo.
  • in prossimità dì...: vicino a, avvicinandosi a...
  • intirizziti, agg.: infreddoliti.
  • battere i denti, espressione figurata: avere molto freddo.
  • mormorare, verbo: bisbigliare, dire a bassa voce.
  • in un batter d’occhi, espressione figurata: in un baleno, velocemente.
  • dileguò, pass. rem. del verbo dileguarsi: spostarsi rapidamente.
  • si sfilacciarono, pass. rem. del verbo sfilacciarsi: letteralmente dividersi in fili, perdere compattezza.
  • si sfrangiarono, pass. rem. del verbo sfrangiarsi: simile a sfilacciarsi.
  • in una miriade di..., nome femm. sing.: in un gran numero di...
  • sotterraneo, agg.: che sta sotto terra.
  • condotte, nome femm., pl. di condotta: canale dove passano i tubi.
  • ridarci, ind. presente del verbo ridare: restituire.
  • possente, agg.: forte.
  • sostò, pass. rem. del verbo sostare: fermarsi.
  • baracche, nome femm., pl. di baracca: piccola casa di legno o lamiera.
  • infastiditi, part. pass. del verbo infastidire: disturbare.
  • frastuono, nome masch. sing.: rumore molto forte.
  • russavano, ind. imperfetto del verbo russare: fare rumore con il naso di notte mentre si dorme.
  • lavorio, nome masch. sing.: lavoro continuo e intenso.
  • acquattate, agg.: ferme, nascoste.
  • paglia, nome femm., sing.: insieme di steli di grano o altri cereali tagliato e lasciato seccare.
  • brache, nome femm., pl., di braca: pantaloni.
  • sentenziò, pass. rem. del verbo sentenziare: dire in modo ufficiale, declamare.
  • pissar ciaro e cagar duro, proverbio: fare la pipì di colore chiaro e fare la cacca dura.
  • spanna, nome femm. sing.: la distanza tra la punta del pollice e quella del mignolo allargati al massimo.
  • montanari, nome masch., pl. di montanaro: detto di coloro che vengono dalla montagna.
  • si indignò, pass. rem. del verbo indignarsi: arrabbiarsi.
  • ignoranza, nome femm. sing.: il non conoscere qualcosa.
  • gravità, nome femm., sing.: serietà.
  • polenta, nome femm., sing.: cibo povero ottenuto dalla farina di granoturco cotta nell’acqua.
  • trampolieri, nome masch., pl. da trampoliere: uccello di palude con gambe molto lunghe e collo allungato.
  • stormi, nome masch., pl. da stormo: gruppo di uccelli in volo.
  • sciami, nome masch., pl. di sciame: moltitudine, gran numero (di solito usato in relazione alle api).
  • spalancati, agg.: molto aperti in segno di stupore.
  • postazioni, nome femm., pl. di postazione: luogo dedicato ad attività specifica.
  • reti, nome femm., pl. di rete: intreccio di fili annodati, strumento che serve per pescare.
  • argani, nome masch., pl. di argano: macchina per sollevare e portare grandi pesi.
  • vele, nome femm., pl. di vela: grande tela di varie forme che viene legata al palo dell’imbarcazione e che con il vento fa muovere la barca.
  • palpitanti, agg.: che palpita, è vivo, vivace.
  • brezza, nome femm., sing.: vento leggero e fresco.
  • sinistra, agg.: minacciosa, inquietante.
  • in disarmo, nome masch., sing.: non più utilizzata, in demolizione.
  • pazzi, nome masch., pl. di pazzo: matto, malato di mente.
  • imploravano, ind. imperfetto del verbo implorare: chiedere supplicando.
  • buttateci, imperativo del verbo buttare: gettare.
  • crepiamo, ind. presente del verbo crepare: morire.

Giorgio Scerbanenco, Prova per scegliersi una ragazza.



Lui aveva undici anni, era come un uomo e aveva fatto le cose da uomo, le aveva detto di andare fino in fondo alla via di casa, dove c'erano i giardinetti, e aspettarlo lì; poi l'aveva raggiunta e avevano finto come le altre volte di giocare, ma in realtà lui sorvegliava l'arrivo del tram che fermava proprio davanti ai giardinetti e appena il tram era arrivato, di corsa erano saliti, il capolinea del tram era proprio alla stazione, e una volta saliti sul treno non li avrebbero ripresi più. Lei aveva dieci anni, era forse la più carina della strada dove abitavano, ma lui non si fidava, era uomo e d'istinto non si fidava delle donne, e voleva essere sicuro che non fosse una pappa molle. "Hai paura?", le chiese. Lei lo guardò quieta. "No", disse. Non sapeva di che cosa doveva aver paura, lui era il suo ragazzo e lei non poteva temere niente.
Scesero alla stazione, era il crepuscolo, a casa stavano preparando il pranzo e li attendevano. Egli andò alla biglietteria e finse di prendere i biglietti, aveva due vecchi cartoncini e glieli mostrò: "Siamo a posto, non andremo più a casa, a Genova prenderemo il piroscafo, c'è un marinaio che ci tiene di nascosto nella sua cuccetta", e stette a guardarla. La Silvia, che pure aveva undici anni come lui, l'Ilaria che sembrava così spavalda, la Dumbina che pure diceva le parolacce, quando aveva detto così, si erano messe a piangere, lì, tra la folla della stazione, per tornare tra le braccia della mammina.
Ma quella no. Alzò il viso quieto, inflessibile, pieno di fiducia in lui e disse inflessibile: "Andiamo". Egli le scompigliò i capelli, felice. "Era una prova", disse, "volevo vedere se hai fegato. Non voglio una ragazza pappa molle: torniamo a casa."


avevano finto (fingere): far credere
capolinea: ultima fermata diuna linea di trasporto
istinto: impulso naturale, carattere
pappa molle: persona senza carattere
quieta: tranquilla
egli: lui
finse: passato remoto del verbo fingere
mostrò: passato remoto verbo mostrare
Piroscafo: battello
marinaio: uomo che vive sul mare
di nascosto: senza farsi vedere
cuccetta: posto letto
stette: passato remoto verbo stare
spavalda: arrogante, audace
parolacce: brutte parole
alzò: passato remoto verbo alzare
scompigliò: (scompigliare) mettere in disordine
hai fegato: hai coraggio

Sebastiano Vassalli, Marco e Mattio



Marco e Mattio (prima parte)
C’era molta gente che aspettava la zattera per Venezia in quel lontano giorno d’aprile del 1784 in cui Mattio e Angelo Lovat s’imbarcarono nel porticciolo di Codissago, e c’era anche molto frastuono: su tutt’e due le rive del fiume, allo strepito abituale delle seghe ad acqua e agli altri rumori si aggiungevano gli urli e i richiami dei menadàs, cioè degli uomini che agganciavano i tronchi portati dalla corrente e li tiravano in secco o li smistavano nei canali delle segherie, a seconda
del marchio che avevano impresso. Nel porto, poi, si preparavano le merci che si sarebbero dovute caricare di lì a poco (...).
Era quello, infatti, il periodo dell’anno più favorevole al trasporto per zattera di ogni genere di merci (...). Mattio e Angelo, naturalmente, stavano aspettando la “rapida”, eccitati e anche intimoriti per la novità e la lunghezza del viaggio, e per ciò che li attendeva quando infine sarebbero arrivati a destinazione: la città di
Venezia! Soprattutto era intimorito il piccolo Angelo, che aveva allora tredici anni e andava a Venezia per restarci a lavorare, grazie ai buoni uffici di fra Giuseppe da Zoldo: sarebbe stato assunto come garzone nella bottega di un orafo e avrebbe dovuto spiare ciò che facevano i lavoranti adulti – così gli aveva detto sua madre, e così gli ripetevano tutti – per “rubargli il mestiere”! Il povero ragazzo si guardava attorno con gli occhi spalancati, perché non era mai uscito
dalla sua valle prima di quel giorno e alternava momenti di entusiasmo e di curiosità, in cui voleva sapere tutto e tempestava il fratello di domande, ad altri d’improvvisa tristezza, in cui gli occhi gli si riempivano di lacrime e la paura dell’ignoto diventava fortissima. Si domandava, in quei momenti: dove vado? Come sarà la mia vita, senza amici, in quella città sconosciuta e lontana? Anche Mattio, che aveva ormai ventitré anni e si metteva in viaggio soltanto per accompagnare il fratello più giovane, era inquieto ed eccitato: finalmente – pensava – avrebbe visto Venezia! Dopo una breve attesa, la zattera arrivò;
anzi, a voler essere precisi, si dovrebbe dire che arrivarono le zattere: perché quelle imbarcazioni che viaggiavano sul Piave da più di  mille anni e che avevano portato in laguna tutti i tronchi con cui s’erano fatte le fondamenta di Venezia, i suoi palazzi, le sue navi, erano dei veri e propri “treni d’acqua” composti ciascuno di cinque vagoni – cinque zattere – tenuti insieme da artifici elastici di legno di nocciolo. La prima e l’ultima zattera d’ogni convoglio erano riservate agli zatterieri: ogni “treno d’acqua”, infatti, doveva avere un suo equipaggio regolamentare di otto uomini vestiti tutti di nero,
col cappello nero a “bombetta”, la camicia e le calze bianche e una fascia di lana rossa stretta attorno alla vita. Sulla seconda e sulla quarta zattera si caricavano le merci; soltanto la zattera centrale era destinata al trasporto delle persone. Tra imprecazioni fiorite e rumori d’ogni genere, frenando col pal de ponta, il convoglio venne a fermarsi di fianco alla banchina: allora i viaggiatori più giovani saltarono giù, e aiutarono le donne e gli uomini anziani a compiere quell’operazione – che per loro era un po’ più difficile – e ad imbarcare i bagagli
(...).
Superate in un turbine le tre rapide dette di Dogna,di Provagna e di Fortogna dai nomi dei villaggi ad esse sovrastanti, la zattera continuò la sua corsa verso Belluno senza più grandi scosse, rallentando progressivamente l’andatura a mano a mano che le montagne s’allontanavano e il fiume s’allargava, si divideva in rami, formava le prime isole. Soltanto una volta la pesante imbarcazione corse davvero il rischio di incagliarsi per una manovra affrettata; i tronchi della
parte di poppa strisciarono contro i sassi del fondo provocando una sorta di terremoto e chi era in piedi al centro della zattera vacillò e cadde, alcuni – e tra essi il piccolo Angelo – gridarono per lo spavento: “Si va a fondo! Aiuto!”. Ma il capo zata ordinò ai suoi uomini di fare forza tutti insieme con i remi e in un batter d’occhi il  convoglio si raddrizzò, si liberò, riprese la sua corsa. Dopo Capo di Ponte il paesaggio si fece più ameno, più variato di campanili e di ville e dl’alberi fioriti; incominciarono a venire incontro ai viaggiatori i mulini e i folòi di cividal, o dei suoi immediati dintorni. Apparve Belluno: in alto, immersa nel verde, si vede la città dei signori con i suoi campanili, le sue torri, i suoi palazzi; e giù, sul fiume, s’avvicinarono le casupole di Borgo a Piave e i magazzini del porto. Con il trambusto che l’operazione richiedeva ogni volta, la zattera attraccò e i viaggiatori si divisero in due gruppi: i benestanti si diressero verso l’Osteria del Borgo, dove avrebbero cenato e pernottato in comode stanze da quattro o cinque letti ciascuna; gli altri, e tra loro i fratelli Lovat, si sedettero su una catasta di assi, tirarono fuori dalle bisacce e dalle sporte la polenta che s’erano portati da casa e cenarono con quella, chiacchierando del più e del meno per passare il tempo, finché il buio fu completo.


zattera: piattaforma galleggiante, di forma quadrata o rettangolare,
costituita da assi e tronchi d’albero
porticciolo: piccolo porto
frastuono: rumore
smistavano: dal verbo smistare, dividere
uffici: in questo caso, raccomandazioni
garzone: ragazzo che lavora in una bottega svolgendo i servizi più
semplici;: sin., apprendista
orafo: colui che lavora l’oro
spalancati: ben aperti
tempestava: dal verbo tempestare, in senso figurato assillare
vagoni: carrozza del treno
convoglio: gruppo di veicoli o imbarcazioni
banchina: argine dove le imbarcazioni possono attraccare
turbine: velocemente
rapide: tratto di fiume dove l’acqua scorre veloce
incagliarsi: dal verbo incagliarsi, incastrarsi tra le rocce
poppa: parte posteriore delle imbarcazioni
batter d’occhi: (modo di dire) subito, in un istante
ameno: piacevole
casupole: piccole case
trambusto: confusione, agitazione di persone
benestanti: ricchi
catasta: ammasso, cumulo
bisaccia: tipo di borsa
sporta: altro tipo di borsa, molto capiente, fatta di vimini, di
paglia, o di pelle

Beppe Fenoglio




La paga del sabato, Beppe Fenoglio, pp. 40-41, Einaudi

- Bianco, Palmo un giorno o l’altro ti tradirà.
- Palmo? Non c’è nessun cane fedele come Palmo.
- Non ti tradirà per volontà, ma un giorno o l’altro combinerà una cretinata che ti tradirà.
Bianco scosse la testa, guardava il fumo della siga­retta, non era persuaso, e poi disse: - Sentiamo un po’ cos’hai capito.
- Che stasera andiamo su e gli prendiamo un po’ di soldi per perdonargli il suo fascismo.
- Sì, però noi glielo perdoneremo a rate, capisci? A rate capito. E chi ci andiamo?
- In quattro.
Tu, io e Palmo. Chi è il quarto?
- È il fratello di Costantino, quel mio uomo che si è ammazzato in motocicletta. In famiglia hanno bisogno e lui è venuto da me perché io lo faccia lavorare e guadagnare qualcosa. Stasera gli faccio far da autista.
Disse Ettore: - E io che parte faccio stasera?
- Tu non farai niente se il vecchio si lascia convin­cere dal discorso che gli farò io. Se invece non cede, allora io mi ritiro e ti fai avanti tu e gli mostri la tua pi­stola, gliela mostri soltanto. Potrei farglielo fare a Palmo, ma è meglio che lo fai tu. Così fai vedere a Palmo che sai e vuoi lavorare e lui non avrà più niente da dire quando io lo metterò sotto di te. Va?
- Va. E la cifra?
Tu non ci pensare. Le cifre le faccio sempre io. Tu sappi solo che io a buon mercato non lavoro e non faccio lavorare gli altri.
- Va bene, ma io avrei bisogno di ventimila lite per stasera.
- Per che cosa?
- Per mia madre, per tappar la bocca a mia madre.
- Tua madre cosa c’entra ?
- Devo ben dimostrarle che mi son messo a lavora­re con te.
Bianco restò con la sigaretta a metà strada dalla boc­ca e Ettore disse in fretta: - Stai tranquillo, le dico che faccio per tuo conto e coi tuoi camion gli autotrasporti da qui al porto di Genova.
- Stasera ti do ventimila lire.
Ettore si alzò, non era allegro, ma tranquillo, con la sensazione di lavorare già da tempo.
Bianco aveva messo i piedi in terra. Disse: - Solo per una curiosità, come facevi tu Ettore a sapere i miei affari fin da questo inverno?
- Me li diceva Costantino.
Bianco alzò la testa, gli si vedeva sulla bocca la be­stemmia che stava per uscirne.
- Costantino era mio amico, - disse Ettore.
- Porco.. - cominciò Bianco a dire al morto.
- Costantino è morto.
- Per fortuna che è morto!
Ettore disse: - Fidati di me come ti puoi fidare di Costantino adesso che è morto. Gli ordini per stasera?
- Vieni qui al caffè all’una. Facciamo una partita al biliardo io e te e parliamo.
Con Bianco Ettore aveva fatto le dieci, e doveva riempire le due ore che ancora restavano di lavoro an­timeridiano alla fabbrica della cioccolata. Poteva passarle con Lea, non tanto per il divertimento quanto per la necessità di non mettersi in vista, e in camera di Lea non l’avrebbero scovato né suo padre né qualcuno della fabbrica al corrente della sua assunzione …

fedele: fidato, affezzionato, leale
cretinata: sciocchezza, stupidata, fesseria
persuaso: convinto
a rate: in pate, in quote
cifra: somma
a buon mercato:a buon prezzo
tappar la bocca: fare stare zitto,
bestemmia: imprecazioni
antimeridiano: mattutino
scovato: trovato
al corrente: a conoscenza



Chi lavora è perduto di Tinto Brass

 

Chi lavora è perduto, noto anche con il titolo In capo al mondo, è un film del 1963 diretto da Tinto Brass. Nel film, Bonifacio è un ventisettenne che si trova a girovagare per Venezia.
Bonifacio è un disegnatore fresco di diploma e sta per entrare a far parte di una grande industria, ma il lavoro lo annoia.

La città dei matti



Prima c'era la Città dei matti, il manicomio. Con tutto il suo carico di orrori piccoli e grandi. Letti di contenzione, camicie di forza, celle d'isolamento, elettroshock punitivi, infermieri-carcerieri e malati-carcerati, rapporti sadici fra medici e pazienti. Non un luogo di cura, ma di segregazione, occultamento e cronicizzazione di quello "scandalo" sociale che è sempre stata la malattia mentale. In tutto il mondo occidentale, nessuno aveva mai messo in discussione il manicomio, nessuno aveva mai osato sfidare frontalmente il potere degli psichiatri. Almeno fino all'inizio degli anni '60 quando, in una città di provincia del Nord, un giovane psichiatra ribelle, emarginato dal mondo accademico, Franco Basaglia, accese quella scintilla che provocò un incendio impensabile fino a qualche anno prima...

Dieci Inverni


Dieci inverni è un film del 2009 diretto da Valerio Mieli.  La storia ha inizio nell'inverno del 1999 a Venezia, con l'incontro dei due protagonisti diciottenni su un vaporetto. Da lì poi si dipana lungo i dieci anni in una Mosca nevosa e caotica (Camilla è studente di russo), una Venezia stranamente industriale e insolita, e le colline venete di Valdobbiadene.

domenica 14 novembre 2010

A little romance

sabato 13 novembre 2010

Jean Paul Belmondo a Venezia in Le Guignolo


Jean Paul Belmondo nel 1980 in missione a Venezia.